Il cane e la mina alla deriva
Negli anni immediatamente successivi alla fine
del secondo conflitto mondiale, navigare era estremamente pericoloso
per il caso, non raro, d'imbattersi in una delle innumerevoli mine
galleggianti alla deriva, soprattutto lungo le rotte mercantili più
frequentate e nelle zone abituali di pesca. Ma, se navigare era
pericoloso, assai più rischioso era l'esercizio della pesca
meccanizzata, ciò perchè mancavano informazioni dettagliate ed
esaurienti sulla effettiva consistenza numerica e posizione dei
campi minati, aree in cui una quantità impressionante di quelle
terribili armi erano state ancorate a profondità variabile in
funzione antisommergibile, mine che per l'azione dei divergenti
(attrezzature che trainate dalla barca avan-jteule "arano"
letteralmente il fondo marino, tutto sommovendo) jyotevano essere
facilmente urtate o disancorate e, per conseguenza, deflagrare in
ogni momento e dovunque.
Un buon numero di tali campi minati erano stati segnalati dalle
autorità portuali, dietro indicazione del competente ministero, che,
conseguentemente, avevano fatto divieto di praticarvi l'attività
peschereccia, divieto il più delle volte ignorato, tanto che, non di
rado, l'equipaggio di qualche motopesca aveva avuto la non gradita
sorpresa di vedere affiorare il sacco (parte terminale della rete
dove il pesce resta imprigionato) presentante un abnorme, sinistro
rigonfiamento, non costituito da "una palla di pesce", come era
d'uso dire, sebbene perchè, nel sacco, tra fango, alghe, piante
marine, detriti d'ogni genere e pesce, vi si trovava anche uno di
tali strumenti di morte che tante vittime avevano causato nel corso
delle operazioni militali e avrebbero continuato a causarne per
molti anni ancona, cioè finché la bonifica non fosse stata ultimata.
Quando l'equipaggio di una barca da pesca s'avvedeva che uno di
quegli ordigni micidiali (alcuni se ne rendevano conto dal modo in
cui il sacco affiorava in superficie) era frammisto a prede e altro,
doveva, quanto più rapidamente possibile, assestare due colpi
d'ascia a recidere le cime di sostegno della rete, lasciando che il
sacco con tutto il contenuto, mina compresa, affondasse, prima che
giungesse sotto bordo, nel qual caso l'esplosione sarebbe stata
inevitabile, come, !|™troppo, più volte, in seguito, accadde anche
nel nostro mare, uno di tali indesiderati incontri, incappò il
grosso motopesche-ccio in acciaio "Santo Stefano" (militarizzato nel
corso della guerra aveva egregiamente operato nei mari dell'Africa
Settentrionale come spazzamine e nave-civetta) nel Febbraio 1946,
nel corso di una "cala", a circa quattro miglia a Est dell'isola del
Giglio. L'equipaggio (chi ha narrato l'episodio, imbarcato come
mozzo solo da pochi giorni, aveva, all'epoca, 14 anni), sistemato
nelle casse l'abbondante pescato della prima "calata" si era riunito
a poppa, apprestandosi a consumare il tradizionale caldaro (zuppa di
pane e pesce, abbondante soffritto d'olio, cipolle, erbe aromatiche
e peperoncino rosso e vino di queste colline). In cala, in questi e
altri frangenti consimili, il capitano ordinava di fissare il timone
di modo che, la barca, procedendo a velocità moderata, potesse
seguire la rotta stabilita, senza deviazioni di sorta in conse-f""enza
dell'equilibrio conferitole dalla sante rete trainata sul fondale.
Quello I pasto meridiano era uno dei rari momenti di un quasi totale
relax, mai distogliendo, però, lo sguardo dalla superficie delle
acque, in quei giorni più infide che mai. A bordo, il comandante,
teneva un piccolo cane, un bastardino, Bobi, il quale aveva una
strana quanto inspiegabile repulsione per la carne di porco. Durante
le lunghe ore di navigazione in cala, Bobi, restava ritto sulla
prua, come se qualcuno gli avesse ordinato di stare di vedetta,
infilando, talvolta, il musetto in uno degli occhi di cubia per
meglio osservare le onde, bianche di schiuma, tagliate dalla prua
della barca, notando e dandone immediato avvertimento con un
ripetuto bau bau, ogni oggetto galleggiante che appariva nelle
vicinanze, oppure un gruppo di delfini (oggi quasi scomparsi,
allora, però, numerosissimi) caracollanti attorno al peschereccio,
spesso slanciandosi verso poppa abbaiando, non si capiva se
divertito o preoccupato per ciò che aveva avvistato, per poi
ritornare al suo posto fisso di vedetta non comandata.
Quel giorno, mentre l'equipaggio stava assaporando il tradizionale
caldaro, rendendolo più gradito con più di un bicchiere di vino
ansonaco, Bobi, incominciò ad abbaiare furiosamente e prese a
correre da prua a poppa e viceversa, più volte, saltando addosso ora
all'uno, ora all'altro marinaio, come a volerlo invitare a seguirlo
a prua; poiché, quando ritornava sulla prua il suo sguardo si
fissava insistentemente su un punto che si trovava proprio in linea
retta sulla direttrice della rotta su cui procedeva l'imbarcazione,
un paio di uomini corsero a vedere, forse presaghi di qualche
pericolo, che cosa fosse a determinare tutta quell'agitazione, ma
giunti a prua un grido che nulla aveva di umano uscì dalle loro
gole: Una Mina! Il capitano, espertissimo uomo di mare (Zi Lello,
padre del mozzo) che con le mine aveva una certa familiarità per
aver comandato lo stesso "Santo Stefano" destinato a spazzar mine
nel Golfo della Sirte, con straordinario sangue freddo, in due, tre
secondi, liberò il timone, imprimendo simultaneamente un mezzo giro
alla ruota; lo scafo accostò subitaneamente a sinistra quel poco che
permise di evitare l'impatto e la deflagrazione che avrebbe segnata
la fine del "Santo Stefano" e del suo equipaggio. Gli occhi sbarrati
per il terrore, gli uomini videro sfilare, a non più di due, tre
metri a dritta la grossa mina che si dondolava pigramente (il mare
era in bonaccia) simile a un'enorme, innocuo pallone pieno d'aria,
sebbene, al suo interno, nascondesse una terrificante carica
esplosiva. L'enorme involucro, ricoperto d'incrostazioni biancastre
per la lunga permanenza in acqua, evitato per un pelo dal motopesca
santostefa-nese, era irto di sinistre spolette, potenziale pericolo
di qualsiasi barca in navigazione nella zona. Un candido gabbiano,
appollaiato sulla sommità dell'ordigno di morte, spaventato dalle
grida e dai gesticolamenti dei marinai, s'alzò in volo,
allontanandosi verso l'Argentario. Bobi, si ebbe una infinità di
coccole e un oceano di carezze, oltre, naturalmente a un'abbondante
razione di carne, rigorosamente non di porco.
La storia è stata press'a poco così raccontata all'articolista
dall'allora mozzo di bordo, Elio Loffredo, marinaio artista, autore
dei drappi del Palio Marinaro di Porto S. Stefano di questi ultimi
anni.
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