Elio Loffredo

"Pittore in Porto S. Stefano  - Monte Argentario"

 

Articoli di vita di mare

Il Cane e la mina alla deriva

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Il cane e la mina alla deriva

Negli anni immediatamente successivi alla fine del secondo conflitto mondiale, navigare era estremamente pericoloso per il caso, non raro, d'imbattersi in una delle innumerevoli mine galleggianti alla deriva, soprattutto lungo le rotte mercantili più frequentate e nelle zone abituali di pesca. Ma, se navigare era pericoloso, assai più rischioso era l'esercizio della pesca meccanizzata, ciò perchè mancavano informazioni dettagliate ed esaurienti sulla effettiva consistenza numerica e posizione dei campi minati, aree in cui una quantità impressionante di quelle terribili armi erano state ancorate a profondità variabile in funzione antisommergibile, mine che per l'azione dei divergenti (attrezzature che trainate dalla barca avan-jteule "arano" letteralmente il fondo marino, tutto sommovendo) jyotevano essere facilmente urtate o disancorate e, per conseguenza, deflagrare in ogni momento e dovunque.
Un buon numero di tali campi minati erano stati segnalati dalle autorità portuali, dietro indicazione del competente ministero, che, conseguentemente, avevano fatto divieto di praticarvi l'attività peschereccia, divieto il più delle volte ignorato, tanto che, non di rado, l'equipaggio di qualche motopesca aveva avuto la non gradita sorpresa di vedere affiorare il sacco (parte terminale della rete dove il pesce resta imprigionato) presentante un abnorme, sinistro rigonfiamento, non costituito da "una palla di pesce", come era d'uso dire, sebbene perchè, nel sacco, tra fango, alghe, piante marine, detriti d'ogni genere e pesce, vi si trovava anche uno di tali strumenti di morte che tante vittime avevano causato nel corso delle operazioni militali e avrebbero continuato a causarne per molti anni ancona, cioè finché la bonifica non fosse stata ultimata. Quando l'equipaggio di una barca da pesca s'avvedeva che uno di quegli ordigni micidiali (alcuni se ne rendevano conto dal modo in cui il sacco affiorava in superficie) era frammisto a prede e altro, doveva, quanto più rapidamente possibile, assestare due colpi d'ascia a recidere le cime di sostegno della rete, lasciando che il sacco con tutto il contenuto, mina compresa, affondasse, prima che giungesse sotto bordo, nel qual caso l'esplosione sarebbe stata inevitabile, come, !|™troppo, più volte, in seguito, accadde anche nel nostro mare, uno di tali indesiderati incontri, incappò il grosso motopesche-ccio in acciaio "Santo Stefano" (militarizzato nel corso della guerra aveva egregiamente operato nei mari dell'Africa Settentrionale come spazzamine e nave-civetta) nel Febbraio 1946, nel corso di una "cala", a circa quattro miglia a Est dell'isola del Giglio. L'equipaggio (chi ha narrato l'episodio, imbarcato come mozzo solo da pochi giorni, aveva, all'epoca, 14 anni), sistemato nelle casse l'abbondante pescato della prima "calata" si era riunito a poppa, apprestandosi a consumare il tradizionale caldaro (zuppa di pane e pesce, abbondante soffritto d'olio, cipolle, erbe aromatiche e peperoncino rosso e vino di queste colline). In cala, in questi e altri frangenti consimili, il capitano ordinava di fissare il timone di modo che, la barca, procedendo a velocità moderata, potesse seguire la rotta stabilita, senza deviazioni di sorta in conse-f""enza dell'equilibrio conferitole dalla sante rete trainata sul fondale. Quello I pasto meridiano era uno dei rari momenti di un quasi totale relax, mai distogliendo, però, lo sguardo dalla superficie delle acque, in quei giorni più infide che mai. A bordo, il comandante, teneva un piccolo cane, un bastardino, Bobi, il quale aveva una strana quanto inspiegabile repulsione per la carne di porco. Durante le lunghe ore di navigazione in cala, Bobi, restava ritto sulla prua, come se qualcuno gli avesse ordinato di stare di vedetta, infilando, talvolta, il musetto in uno degli occhi di cubia per meglio osservare le onde, bianche di schiuma, tagliate dalla prua della barca, notando e dandone immediato avvertimento con un ripetuto bau bau, ogni oggetto galleggiante che appariva nelle vicinanze, oppure un gruppo di delfini (oggi quasi scomparsi, allora, però, numerosissimi) caracollanti attorno al peschereccio, spesso slanciandosi verso poppa abbaiando, non si capiva se divertito o preoccupato per ciò che aveva avvistato, per poi ritornare al suo posto fisso di vedetta non comandata.
Quel giorno, mentre l'equipaggio stava assaporando il tradizionale caldaro, rendendolo più gradito con più di un bicchiere di vino ansonaco, Bobi, incominciò ad abbaiare furiosamente e prese a correre da prua a poppa e viceversa, più volte, saltando addosso ora all'uno, ora all'altro marinaio, come a volerlo invitare a seguirlo a prua; poiché, quando ritornava sulla prua il suo sguardo si fissava insistentemente su un punto che si trovava proprio in linea retta sulla direttrice della rotta su cui procedeva l'imbarcazione, un paio di uomini corsero a vedere, forse presaghi di qualche pericolo, che cosa fosse a determinare tutta quell'agitazione, ma giunti a prua un grido che nulla aveva di umano uscì dalle loro gole: Una Mina! Il capitano, espertissimo uomo di mare (Zi Lello, padre del mozzo) che con le mine aveva una certa familiarità per aver comandato lo stesso "Santo Stefano" destinato a spazzar mine nel Golfo della Sirte, con straordinario sangue freddo, in due, tre secondi, liberò il timone, imprimendo simultaneamente un mezzo giro alla ruota; lo scafo accostò subitaneamente a sinistra quel poco che permise di evitare l'impatto e la deflagrazione che avrebbe segnata la fine del "Santo Stefano" e del suo equipaggio. Gli occhi sbarrati per il terrore, gli uomini videro sfilare, a non più di due, tre metri a dritta la grossa mina che si dondolava pigramente (il mare era in bonaccia) simile a un'enorme, innocuo pallone pieno d'aria, sebbene, al suo interno, nascondesse una terrificante carica esplosiva. L'enorme involucro, ricoperto d'incrostazioni biancastre per la lunga permanenza in acqua, evitato per un pelo dal motopesca santostefa-nese, era irto di sinistre spolette, potenziale pericolo di qualsiasi barca in navigazione nella zona. Un candido gabbiano, appollaiato sulla sommità dell'ordigno di morte, spaventato dalle grida e dai gesticolamenti dei marinai, s'alzò in volo, allontanandosi verso l'Argentario. Bobi, si ebbe una infinità di coccole e un oceano di carezze, oltre, naturalmente a un'abbondante razione di carne, rigorosamente non di porco.
La storia è stata press'a poco così raccontata all'articolista dall'allora mozzo di bordo, Elio Loffredo, marinaio artista, autore dei drappi del Palio Marinaro di Porto S. Stefano di questi ultimi anni.
 

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