Loffredo ha navigato per 40 anni, ora dipinge
stendardi del Palio e ringrazia S. Stefano che lo ha protetto.
Quarant'anni di navigazione non si dimenticano facilmente; per un
marittimo significano una vita intera sul mare e pocjii contatti con
la famiglia. " " " r capire come fosse lungo il tempo che un uomo di
mare trascorreva lontano da casa di potrebbe fare un semplice
esempio: partiva lasciando la moglie in stato interessante e quando
tornava trovava il figlio o la figlia che già camminava.
Naturalmente questo accadeva negli anni '40 e '50, ovvero subito
dopo la guerra.
la vita era dura per la gente di mare, specialmente per chi navigava
nei mari ancora «seminati» di mine. Elio Loffredo, un santostefanese
puro sangue, ne sa qualcosa; ha iniziato a navigare a 14 anni, nel
periodo in cui gli americani sbarcavano all'Isola d'Elba; il suo
primo imbarco è stato sulla paranza, dopo su motovelie-r
"--motonavi, petroliere per finire sui panfili a vela o a motore. È
motorista navale diplomato alla scuola marittima di Porto S. Stefano
(ex Enem). Adesso Loffredo si riposa dipingendo; gli ultimi
stendardi del Palio Marinaro portano la sua firma. Ma quali sono
stati i momenti più brutti della sua carriera? Loffredo ci pensa e
ricorda i primo anni quando ;ra imbarcato con la qualifica di mozzo
sulla paranza «Santo Stefano» insieme ad altri otto compagni (di
quell'equi-paggio purtroppo sono rimasti in due, Loffredo e Luigi
Bruni).
«Era il mese di febbraio del 1946 — racconta Loffredo — eravamo in
pesca a circa quattro miglia ad est dell'Isola del Giglio. La
giornata era splendida, il mare calmo. L'equipaggio, dopo aver
sistemato il pescato della prima cala nella cella frigorifera, si
era riunito a poppa per consumare il pranzo, la tradizionale zuppa
di pesce. Il capitano aveva fissato il timone e la barca seguiva la
rotta per la nuova cala; Io ero in cucina a preparare l'arrosto di 'argentini'.
A bordo avevamo un cane di nome «Bobi», un caro amico che ci teneva
compagnia. 'Bobi' aveva il vizio di stare a prora, come se qualcuno
gli avesse chiesto di fare la vedetta, metteva il musetto in uno
degli occhi di cubia per osservare meglio le onde e tutto ciò che
passava vicino alla paranza; quello che vedeva lo seguiva abbaiando
fino a poppa e dopo tornava al suo posto. Quel giorno, mentre
eravamo a mangiare il 'caldaro', Bobi incominciò a abbaiare con
insistenza correndo da prua a poppa e viceversa, saltando addosso ai
marinai proprio per invitarli a seguirlo. Un paio di amici corsero a
vedere, ma giunti a prua si accorsero che a meno di cento metri
dalla loro direzione c'era una mina; un grido: 'Capitano c'è un
amina sulla nostra rotta'. Lello, il capitano, salì in plancia,
liberò il timone e, con una secca manovra a sinistra, lo scafo evitò
l'impatto e la deflagrazione che avrebbe segnato la fine del
peschereccio e di tutto l'equipaggio: Con gli occhi sbarrati,
l'equipaggio vide passare la grossa ad un paio di metri dal 'S.
Stefano', aveva sopra un gabbiano bianco che alla presenza della
pranza si alzò in volo allonta-nandosi verso l'Argentario». J rrrcà
il nostro marinaio raccon-I ta di essersi trovato di fronte al
pericolo in altre occasioni: «Nel settembre del '47, sempre sul «S.
Stefano», salpammo la rete a circa 10 miglia ad est di Montecristo:
il sacco era pieno di pesce, lo rovesciammo sulla poppa e, con
stupore, vedemmo insieme al pesce una grossa mina. L'equipaggio
propose di rigettare la mina in mare, il capitano si oppose, fece
rotta verso^nna zona dove non passavano barche e la fece calare sul
fondo. Nel maggio del '48 una bomba esplose sul fondo del mare
perché il divergente della rete toccò la spoletta. Tirammo a brodo
la rete e, insieme al pesce c'era una grossa scheggia ed una
tartaruga con la carcassa rotta. E Patrono Santo Stefano è stato
veramente un grande santo. Più volte ha salvato la paranza e
l'equipaggio».
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